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Marzo

Vicente Todolì, direttore della Tate Modern di Londra

Mentre fuori imperversava la Fashion Week, la Triennale di Milano ha ospitato nei giorni scorsi alcuni pezzi da novanta del design e dell’arte contemporanei

Italo Rota, architetto del nuovo Museo del Novecento; il critico e curatore Germano Celant; il direttore della Tate Modern di Londra Vicente Todolì e ancora altre personalità del settore. L’occasione era l’uscita del volume Italo Rota. Installation Exhibit per Electa. Abbiamo raccolto la testimonianza di Todolì sui temi del museo contemporaneo e dell’allestimento delle mostre.

L’intervista a Vicente Todolì

La Tate Modern è un esempio di museo contemporaneo di successo. La struttura che lo ospita ha dovuto affrontare diversi ostacoli per imporsi e attirare visitatori: quali ostacoli si sono presentati?
“Tanto per cominciare, la City all’inizio non ne voleva sapere di questa connessione tra Nord e  Sud di Londra. Adesso però questa l’estensione del museo continuerà ancora verso Sud, con la costruzione di una nuova area espositiva, per accogliere i visitatori sempre maggiori”.

La Tate Modern è ospitata in una vecchia centrale elettrica, poi riqualifcata a museo…
“Gli architetti hanno dovuto fare i conti con il carattere iconico di quella che era una fabbrica di energia, dall’aspetto imponente, quasi una cattedrale. Abbiamo giocato con questa struttura, approfittandone per ribaltare l’idea stessa di museo. In genere appena si entra in un museo si trova una salita, metafora di una sudditanza verso la cultura “alta”. Alla Tate Modern, invece, appena entrati si scende e viene istintivo guardare in alto: la contemplazione dell’immensità della cultura. La scelta dell’architetto per la progettazione di una sede museale deve essere ben ponderata. È fondamentale che conosca l’arte che accoglierà il suo museo. E possibilmente che la ami!”.

Il Guggenheim di Bilbao insegna: il museo diventa meta turistica ma per contenitore, non per il contenuto. Come si fa a non cadere nella trappola del museo-cartolina?
“La sfida è piuttosto: come trasformare il turista che viene alla Tate in un visitatore abituale, attento al contenuto oltre che al contenitore? Io sono più felice per i 100mila amici della Tate, cioè i suoi sostenitori abituali, che non per i 5 milioni di turisti. Per portare la gente al museo occorre però creare un movimento al suo interno, delle attività per coinvolgere il visitatore”.

Anche attraverso l’apertura di ristoranti o negozi?
“Certo. La Tate riceve il 40% dei finanziamenti dallo Stato, devo procurarmi il restante 60% attraverso la concessione di queste attività. Tocca al museo non cadere nel rischio più grave: non seguire più la sua mission principale, cioè raccontare l’arte. Per questo i museo devono essere come barche a vela: agili, le puoi girare in pochi secondi. Le istituzioni e i trustees americani creano musei più simili a portaerei: ci stai sopra e non riesci neppure a vedere o a sentire l’acqua, per cambiare direzione ci metti almeno 24 ore!”.

Perché un’opera sia considerata Arte, basta che sia esposta in un museo?
“È un discorso complesso, ma anche se fosse il contesto museale a dirci che cos’è arte,  c’è sempre la libertà di dire no. Se un visitatore non è d’accordo con l’idea di arte di un museo, può sempre girare i tacchi e andarsene”.

Qual è il criterio per capire se l’allestimento di una mostra è azzeccato oppure no?
“Non è una questione semplice. Diciamo che l’allestimento deve far sentire l’arte a proprio agio nel museo. Ma come il montaggio e la scenografia non fanno da soli un film, lo stesso si può dire per una mostra e il suo allestimento”.

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