Con ostentato compiacimento Street Art, Sweet Art (al PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea fino al 9 aprile, ingresso gratuito) si offre al visitatore nei propri candori deturpati, luogo di illuminata e benevolente apertura al graffito.
UNA TRAPPOLA PERFETTA – Di fatto però la sensazione è quella di entrare in una trappola perfetta. Non tanto per il paradosso di aprire le porte ad opere che fondano la propria ragione nella appropriazione clandestina dei muri urbani, e nemmeno per l’idea di creare un “bazar pop-up” laddove non esista una cosciente cultura critica – come quella che in America fa capo a Keith Haring – che possa partorirlo, ma solo un vago impulso da collezione. La vera insanabile contraddizione è in realtà quella di mettere in piedi una glorificazione prima che un’antologia di artisti, con opere appositamente create per questa esposizione, linde nei materiali e pure nei colori. A tal punto che non è più la strada ad entrare nel museo, con opere ad essa strappate, ma il museo che si mangia la strada, sostituendovisi. Ecco allora che nella loro pulizia asettica da laboratorio i panettoni-pinguini di Pao sembrano regredire a indifferenti gadget, così come la rabbia di BO130 si sterilizza mentre cerca un rapporto con la parete bianca.
RUTTI SOTTO VUOTO – Questi che dovrebbero essere i rutti delle nostre città, che ne assorbono le ossessioni (i filamenti aggrovigliati di Microbo, il metallo per Kay, i nudi dalle pose straziate di El Gatto, il movimento frenetico e incessante in Cano, e poi acari, maschere a gas, linguaggi di programmazione dell’anima, spray branditi come spade, ombre desolate sui muri) vengono così neutralizzati dal richiamo del consenso e del riconoscimento, dai lustrini del mercato dell’arte.
Il caos del mondo e la ricerca di un rifugio, i due motivi cardine in questi artisti, si perdono così nella volgarità di un evento che invece di abbassarsi alla strada, la eleva con fare snob ad opera d’arte.
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