10th

Ottobre

Sergio Motta, intervista al macellaio un po’ chirurgo

Fa il macellaio. Ma è anche un po’ chirurgo. Nel suo camice bianco stretto in un grembiule rosso fuoco

È Sergio Motta, un artista-artigiano della carne la cui passione ruota intorno a bistecca e bisteccone. Che ricava dalla coscia del pesante bue fassone piemontese, facendola frollare per almeno 40 giorni. Nel suo esemplare macello di Inzago, dedalo di celle frigorifere in cui maestose mezzene bovine e delizie suine stanno a riposare e a stagionare.

Quando vedo un animale devo avere la capacità di spogliarlo e di immaginarlo appeso, interpretando le sue forme senza pelle e intuendo la resa che può dare“, dice Sergio, con il piglio di chi questo mestiere lo fa non per fatalità. Perché lui, classe 1968 e inzaghese da generazioni, è figlio di un macellaio e fratello di un veterinario. “Questa professione non mi è stata insegnata. È bastato salire su una bicicletta che girava per casa e pedalare“, sottolinea mastro Motta.

Tutto fiero anche del suo ristorante-macelleria, aperto un anno fa in quel di Villa Fornaci, frazioncina meneghina che si affaccia sul Naviglio della Martesana, divisa fra i comuni di Bellinzago Lombardo e Gessate. Un’oasi gustosa, che chiude il cerchio della filiera mottiana, portando la tenerezza dritta in tavola, fra sale e salette dai toni chiari. Mentre all’esterno si apre un grande porticato dove cenare nella bella stagione. “Era un antico albergo con stallazzo e fienili. Mi è piaciuto subito quando l’ho visto, perché mi sono ritrovato in un luogo a me naturale“, spiega Sergio, mentre alimenta la brace del grande spiedo. Sul quale gira e rigira scoppiettando il succulento costato di bue.

L’intervista a Sergio Motta

Sergio, grazie all’apertura di questo ristorante con corte esterna si può proprio dire che la tua carne esca dalle stalle per veder le stelle.
“Sì. Del resto, mi ritengo un macellaio vero perché faccio tutto, dalla a alla zeta. In Piemonte ho una rete di stalle a Serralunga d’Alba, a Moncalvo e a Portacomaro d’Asti che seguo personalmente. Ci vado la domenica, seleziono i capi, li carico sul camion e torno. Al mattino presto del lunedì sono già impegnato fra visite del veterinario, analisi, bolli sanitari e macellazione. Tagli che poi vendo in bottega e propongo nel menu del ristorante”.

Dunque, filera corta e controllata. Anzi, cortissima e controllatissima, visto che la vostra è una passione di famiglia.
“Proprio così. Nel 1963 papà Giuseppe apre la prima macelleria a Inzago, con mamma Carla al suo fianco. Dopo 15 giorni nasce mio fratello Galdino, che ora fa il veterinario e studia tutte le miscele delle farine da dare agli animali. Assecondando l’esigenza di ottenere un’ottima carne. Intanto, io porto i miei figli Filippo ed Emanuele a dar da mangiare ai vitelli”.

Logico, la tradizione deve continuare. Ma le manze e i buoi dei contadini tuoi che caratteristiche devono avere per essere al top dell’eccellenza?
“Ossa e pelle sottili e testa piccola. Sono indici di elevata resa di carne. Inoltre, bisogna osservare i due cuscinetti vicino alla coda: comunicano quanto grasso contiene l’animale”.

Insomma, ci vogliono occhi attenti ed esperienza. E poi, quale altro fattore concorre alla qualità?
“Senza alcun dubbio la frollatura. Ovvero il riposo della carne. Un letargo in cella a zero gradi centigradi che io spingo fino a tre mesi. Così i tessuti si ammorbidiscono e si ottiene il massimo della tenerezza”.

E adesso il dilemma del macellaio. Come utilizzi o come consigli di utilizzare le parti del quarto anteriore dell’animale, più discriminato rispetto al resto?
“Bisogna capire che non esistono solo filetti, costate e fiorentine. E così dalla coscia ottengo il bisteccone; il costato di bue va sulla brace; e la punta di petto è perfetta per il bollito o per una cottura tipo roast-beef all’inglese. E poi ci sono lo stinco, ottimo al forno ma anche per preparare l’ossobuco; il cappello del prete per scaloppine e brasati; il magatello o girello per il carpaccio; l’ascella per il ragù; e tutte le parti magre e muscolose per le tartare. Senza dimenticare cuore, fegato, rognone e frattaglie, ideali trifolate”.

Della serie, del bue non si butta niente. Ma tu produci anche salumi mi pare?
“Faccio allevare maiali proprio qua, a Inzago. E li faccio ingrassare fino a due anni. Così la carne è più soda, saporita e sostiene meglio la stagionatura. Poi li lavoro per ottenere prosciutto crudo, prosciutto cotto salato in vena e messo al forno, salsicce, lardo e salame. Al cui impasto aggiungo anche un po’ di carne di bue. Per un gusto più rotondo”.

Si capisce, sei un perfezionista. A proposito, c’è anche un numero perfetto che ricorre nella tua vita. Non è così?
“Certo, è il numero dieci. Sono nato alle 10 di un sabato mattina. Quasi sul bancone del nostro negozio. Il 10-10-2000 abbiamo aperto il nuovo laboratorio-macello e il 10-10-2010 ho inaugurato il ristorante. E poi la fiera del bestiame di Inzago cade quasi sempre il 10 ottobre. Un segno del destino”.

Sicuramente un numero fortunato. E con le lettere della tastiera del computer come te la cavi?
“Internet è una macchina perfetta. Lo uso soprattutto per curiosare qua e là e scovare qualche ricetta. E poi per guardare le corride. Mi affascina capire la personalità del bovino, percepire le mosse che farà”.

Sei pure un po’ psicologo. Ma a Sergio Motta la carne piace cruda o cotta?
“La adoro in entrambi i modi. Amo la testina, i bolliti e i brasati, anche se una sera ho mangiato più di un chilo di carne trita cruda. Mi ha regalato un’energia incredibile”.

E qual è il sogno che ti frolla in testa?
“Desidererei una grande cella con vista. Interamente in vetro, che confini da un lato con la macelleria e dall’altra con il ristorante. Senza barriera alcuna”.

Nel frattempo, Sergio Motta ammira la “cella dei sogni” che ha già realizzato e che spicca all’ingresso del ristorante, vicino al camino: una gigante teca cristallina dalla quale occhieggia il suo oro rosso. Una vetrina-santuario meta dei pellegrinaggi dei buongustai, che riveriscono devoti la dea carne. Sublimata in ricette firmate dal giovane cuoco Giorgio Parentella, prima alla corte dello chef Luca Brasi. Ecco allora rubicondi taglieri di bresaola, delicato bue tonnato, cubi di vitello alla milanese in carpione con verdure e finissima tartare. Servita, quasi fosse una piramide azteca, in tre contenitori impilati l’uno sull’altro. E in tre nuance: al naturale, con olio e sale e con crema d’acciughe, capperi e tuorlo d’uovo. Per un sapore al cubo.

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