11th

Aprile

Samuele Bersani

Mentre per tutta la città esplode la voglia di Fuori Salone, giovedì 10 aprile, al Teatro Nazionale, sta per cominciare la tappa milanese del concerto di Samuele Bersani. Sta per cominciare. Dai, vedrai che adesso comincia. Ancora cinque minuti. Invece passa un’ora e venti, c’è un problema tecnico e l’attesa è talmente lunga che uno i coccodrilli non li vede solo venir fuori dalla doccia, come direbbe lui, ma quasi spuntano anche tra le sedie della platea, tante sono le allucinazioni provocate dall’infinito aspettare e dal caldo. Fino a quando esce il sofisticato cantautore, mortificato, simpaticissimo, che confessa come stanno le cose e dice che il concerto s’ha da fare ugualmente, nonostante questo fastidiosissimo ronzio di sottofondo che “Quasi si sente Radio Maria”.

RONZII – Alle 22.30 circa tutto comincia, tra vecchi successi e nuove poesie, come sanno essere le sue canzoni, e quel maledetto zzz che proprio non se ne vuole andare. “È come quando devi indossare il maglione che ti ha regalato la mamma – ironizza Samuele con il suo accento bolognese così sexy – che ormai lo devi mettere, ti piace, ma c’è l’etichetta dietro che ti punzecchia di continuo, e non ridete per le mie z”. Dalla nuova En e Xanax alla toccante Replay, passando per l’infinita bellezza di Giudizi Universali con relativa sgridata iniziale: “Ogni volta la gente intona convinta Vorrei ma non posso (fidarmi di te, ndr), eppure è dal 1997 che io dico Potrei ma non voglio, è un po’ diverso!” (Ops, io ero uno di quelli, lo ammetto, Samuele perdonami). Nonostante il sottofondo, le sue parole restano preziosi e originalissimi sonetti messi in musica, così toccanti che non sarà di certo un brusio a sminuirle.

SELFIE E COMMOZIONE- Sarà che quando ci sono più difficoltà un artista riesce a esprimere il meglio di sé, ma quel live, credetemi, è stato suggestivo come il cielo stellato di luci che ricopriva il palcoscenico. Una filastrocca dopo l’altra, allusioni, curiosi tribunali interiori che danzano tra le note dell’orchestra che lo accompagna, rivisitazioni originali, insomma, di quel brusio quasi uno non se ne accorge più. Quasi. E tra un brano e l’altro, una sorprendente ironia e qualche critica così moderna: “Pensiamo troppo alle Selfie e troppo poco agli Altri-e“. Fino al miracolo finale, quando racconta di come ha iniziato, con un registratorone in mano e un nastro con una canzone scritta a sedici anni e fatta ascoltare a Lucio Dalla, a cui deve tutto. Ancora non ho capito se è stato per la commozione inevitabile, ma in quel momento lì, sono pronto a giurarlo, il ronzio non c’era più. Quando un poeta ne omaggia un altro, non può che accadere un miracolo.

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