22nd

Gennaio

‘Na specie de cadavere lunghissimo

Il pubblico può sentirsi spiazzato perché è seduto ai tavolini di un bar e del sipario non c’è neanche l’ombra. Siamo a teatro sì o no? Pensavamo di essere al Franco Parenti per lo spettacolo ‘Na Specie de cadavere lunghissimo, invece siamo in un luogo “pubblicamente sacro”. Torniamo a sentire la voce di Pierpaolo Pasolini attraverso quella attoriale di Fabrizio Gifuni, incoronato anche col prestigioso premio UBU.

IL VERBO DIVENTA CARNE – Nella prima parte il verbo diventa riflessione e presa di coscienza prima di ridursi a “carne”, nella nudità integrale del corpo dell’attore sulla scena. Ed è qui che entra la mano del regista Giuseppe Bertolucci ad accentuare lo slalom drammaturgico tra l’ultima intervista, gli Scritti corsari e le Lettere Luterane di Pierpaolo Pasolini. Gifuni è stato abile ad incollare questi chili di pensieri in un monologo roboante che, in poco più di settanta minuti, riesuma l’integralità dell’anima a quattro mani di una figura complessa del ‘900: lo scrittore, il regista, il poeta e il giornalista scomodo Pasolini.

PROFETI – Il tocco di Bertolucci evoca il cinema, nell’ultima parte, dove l’attore vestito in abito bianco parla attraverso il poemetto Il pecora, scritto con densità da Giorgio Somalvico. Qui non si tratta di trovarsi spiattellati sulle nostre coscienze le parole dell’omicida di Pasolini Pino Pelosi, ma la dolorosa presa di coscienza che l’urlo arrabbiato contro il sistema e il potere è oggi più forte di eri, in un’Italia che ha sostituito ai mostri in bianco e nero quelli a colori. Pasolini è stato un profeta e Fabrizio Gifuni ce lo ha ricordato con una tale onestà da convincerci che il teatro non perirà mai, anche se dovessimo restare in due dentro e fuori la scena.

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